Giorgio Mangini


Le ‘Persone pericolose per la sicurezza nazionale’ nelle carte della Questura di Bergamo, 1903-1943

L’anagrafe dei sovversivi bergamaschi

L’Archivio di Stato di Bergamo conserva un fondo documentario intitolato Questura di Bergamo - Persone pericolose per la sicurezza nazionale 1903-1943 (con antecedenti e susseguenti), che contiene oltre 3500 fascicoli. In ciascuno di essi sono raccolte diverse tipologie di documenti relativi alle persone alle quali il fascicolo è intestato, solo in minima parte già note alla ricerca storica.

Per l’interesse e la rilevanza di tale documentazione, il Centro studi Archivio Bergamasco ha inteso realizzare un data-base per un più agevole accesso ai dati biografici essenziali di tutti i ‘sovversivi’ e con ciò favorire, per quanto la documentazione lo consenta, la ricostruzione delle loro vite (o di parti di esse) e del loro ruolo sociale e politico. Grazie alla collaborazione con l’Archivio di Stato di Bergamo, si è così proceduto all’analisi di tutti i fascicoli e al trasferimento delle informazioni così individuate nei diversi e specifici ‘campi’ che strutturano il data-base:
luoghi e date di nascita e morte, livello di istruzione, attività professionale, collocazione politica, profilo biografico, dati anagrafici dei famigliari, luoghi di residenza, fatti notevoli, relazioni con altri soggetti, rubrica di frontiera e bollettino delle ricerche, eventuale esclusione dal novero dei sovversivi, documentazione allegata al fascicolo, indicazione di altre fonti archivistiche, riferimenti bibliografici. Non sempre è stato possibile reperire le informazioni necessarie alla compilazione di tutte le voci per ognuna delle singole schede. Per realizzare le sintesi biografiche, laddove è stato possibile ci si è avvalsi anche di altre fonti archivistiche e storiografiche, indicate caso per caso.

Il data-base è consultabile on-line sia sul sito dell’Archivio di Stato di Bergamo sia del Centro studi Archivio Bergamasco.

L’impianto generale del progetto è stato ideato da Giorgio Mangini in collaborazione con Rodolfo Vittori, mentre il software è stato sviluppato dalla società informatica MIDA di Bergamo. A cura di G. Mangini, R. Vittori e Lucia Citerio nel data-base sono state compilate le schede nominative dei sovversivi con i rispettivi profili biografici, mentre la digitalizzazione delle immagini fotografiche contenute nei fascicoli è stata realizzata da Gianpiero Crotti. Al progetto hanno poi aderito anche altri soggetti, con i quali è stata realizzata un’apposita convenzione: l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e, a Bergamo, l’Università, l’Isrec, la Fondazione Bergamo nella Storia, il Comitato Bergamasco Antifascista. Per parte sua, il Centro culturale ‘NuovoProgetto’ di Bergamo ha sostenuto la digitalizzazione delle immagini fotografiche conservate nel fondo.

L’origine dell’anagrafe dei sovversivi

Il 15 agosto 1863, con la legge n. 1409 intitolata "Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette", nota come legge Pica (dal nome del senatore abruzzese della Destra storica Giuseppe Pica che l’aveva proposta), lo Stato liberale post-unitario introduceva una legislazione ‘speciale’ temporanea, che forniva una cornice giuridica ad hoc per la repressione del brigantaggio. Nel suo dispositivo la legge introduceva nuove tipologie di reato, come appunto quello di brigantaggio, ma ne sottraeva la giurisdizione ai Tribunali ordinari affidandola a quelli militari, con ciò derogando dalle garanzie giuridiche contenute nello Statuto albertino, come l’eguaglianza dei sudditi di fronte alla legge, l’esistenza di un giudice naturale e il divieto di costituire tribunali ‘speciali’. La legge prevedeva inoltre, tra le pene possibili, anche quella di morte e il ricorso al domicilio coatto, definito come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”. L’unificazione amministrativa dello Stato italiano, introdotta con la legge Lanza del 20 marzo 1865, n. 2248, confermava le misure coattive del 1863 contro gli oppositori, istituendo inoltre gli uffici di Questura per le città con oltre sessantamila abitanti. Non era il caso di Bergamo, dove la Questura verrà istituita solo nel 1919, ma la legge del 1865, indipendentemente dal numero degli abitanti, prevedeva che presso le città sedi provinciali di PS ci fosse l’uso di registri per le persone da sorvegliare.

L’istituzione di una vera e propria ‘anagrafe’ dei sovversivi, sia centrale che periferica, avviene però durante l’età crispina, quando lo Stato liberale rafforza i propri strumenti di controllo e repressione di soggetti ‘pericolosi’ per ragioni politiche. I passaggi essenziali che vanno richiamati sono due e risalgono rispettivamente al 1889 e al 1894. Il primo riguarda il Regio Decreto del 30 giugno 1889, con l’introduzione del nuovo Codice penale che porta il nome del ministro della Giustizia, Giuseppe Zanardelli, in virtù del quale vengono riordinati gli articoli preesistenti della legislazione di Pubblica Sicurezza, concludendo con ciò il complesso iter giuridico di codificazione della legislazione penale dello Stato liberale emerso dal Risorgimento. Nel Codice Zanardelli viene abrogata la pena di morte ma conservato il domicilio coatto, come prescrive l’articolo 125:

“L'assegnazione al domicilio coatto e la sua durata sono pronunciate da una commissione provinciale composta del prefetto, del presidente del tribunale, o di un giudice da lui delegato, del procuratore del Re, del capo dell'ufficio provinciale di pubblica sicurezza e dell'ufficiale dei reali carabinieri comandante l'arma nella provincia. La commissione è convocata e presieduta dal prefetto”.

Il domicilio coatto, superata la drammatica urgenza sociale e politica legata al brigantaggio che aveva determinato la sua prima istituzione, viene ora rivolto al contrasto con quelli che, in quel momento storico, si presentano come i possibili ‘sovvertitori’ dello Stato e dell’ordine pubblico: mendicanti senza lavoro e fissa dimora, ammoniti, sorvegliati speciali, pregiudicati e, come prevede l’articolo 139, anche le prostitute. Il pericolo maggiore, però, è individuato nell’ambito dei movimenti sociali e politici, tanto da essere indicato come tale già nell’apertura del dispositivo della legge (Titolo I, Capo I, articoli 1-6). infatti, all’articolo 2 si scrive che:

“Qualora, in occasione di riunioni o di assembramenti in luogo pubblico o aperto al pubblico, avvengano manifestazioni o grida sediziose che costituiscano delitti contro i Poteri dello Stato o contro i Capi dei Governi esteri ed i loro rappresentanti, ovvero avvengano altri delitti preveduti dal Codice penale, le riunioni o gli assembramenti potranno essere sciolti e i colpevoli saranno denunziati all'autorità giudiziaria.”

È su questo sfondo che la normativa, proprio con l’ultimo articolo della legge, il n° 141, formalizza l’adozione dell’anagrafe dei ‘sovversivi’ che però, come detto, era già pratica corrente:

“E' istituito in ogni ufficio di sezione delle città sedi di questura un registro d'anagrafe statistica nei modi e con le forme che si determineranno col regolamento.”

Di fatto, in ogni ufficio di PS, anche dove non ci sono sedi di Questura, vengono introdotti i fascicoli dove sono annotate informazioni sui “sovversivi”, corredate da nuovi strumenti di identificazione (fotografie, cartellini dactiloscopici, ecc.), adottati per integrare e superare in senso “oggettivo” la mera e “soggettiva” descrizione antropometrica delle segnalazioni precedenti.

Il secondo passaggio storico essenziale per comprendere la genesi dell’anagrafe dei sovversivi è ancora legato al nome di Crispi. Nell’ambito della politica di contenimento e repressione della protesta sociale delle masse popolari in seguito ai moti dei Fasci siciliani e della Lunigiana, con la circolare n. 5116 emanata il 25 maggio 1894 dalla DGPS - Direzione Generale della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, presso ogni Prefettura viene istituito un apposito ufficio, il cui compito è appunto quello di raccogliere tutte le informazioni possibili sui militanti più in vista dei partiti e dei movimenti ‘sovversivi’ del tempo. Poche settimane dopo, con la legge n. 31 del 19 luglio 1894, su proposta di Crispi il parlamento promulga tre leggi, dette anti-anarchiche, che in realtà colpiscono tutta l’opposizione e che inaspriscono il domicilio coatto. Inoltre, presso la DGPS viene creato il "Servizio dello schedario biografico degli affiliati ai partiti sovversivi maggiormente pericolosi nei rapporti dell'ordine e della Pubblica Sicurezza”.

Nel 1903 il Ministero dell’Interno riorganizza la DGPS, strutturandola in “Divisioni” (I, II, III e Archivio). All’interno della Divisione I c’è l’ulteriore suddivisione in “Categorie”, tra le quali la A8, lo schedario che raccoglie e organizza i fascicoli che avevano iniziato a formarsi nel periodo precedente. Il passaggio decisivo dalla normativa dello Stato liberale a quella dello Stato fascista avviene nel 1923, quando il primo governo Mussolini impone ai prefetti di identificare e catalogare come ‘nemico delle istituzioni pubbliche’ qualsiasi oppositore del fascismo, non solo le figure politiche di spicco, come invece accadeva in precedenza. Per questo, l’archivio generale istituito presso la DGPS del Ministero dell’Interno - dove fin dalla fine dell’Ottocento affluivano le copie di tutti i documenti raccolti nelle sedi periferiche - prende il nome di CPC – Casellario Politico Centrale. Il cambiamento che ne deriva, sul piano quantitativo, è notevole: dal 1889 a tutto il 1922 i fascicoli aperti presso l’ufficio di PS di Bergamo sono in totale 265, mentre nel solo anno 1923 ne vengono aperti 326. È opportuno tenere presente che il CPC conserva circa 153.000 fascicoli, relativi a tutto il territorio nazionale, e che l’ACS, oltre al CPC, conserva altri fondi analoghi (Polizia politica, Confinati politici e altri ancora) e rappresenta uno strumento prezioso per riscontrare ed eventualmente integrare la documentazione conservata a Bergamo. Tuttavia, non tutta la documentazione conservata nei fascicoli della Questura di Bergamo veniva trasmessa al corrispettivo fascicolo aperto al CPC. Risulta pertanto necessario, ai fini di una completa ricognizione archivistica sulle vicende del ‘sovversivo’ sul quale è stato aperto un fascicolo sia a Roma che a Bergamo, procedere ad un riscontro incrociato su tutta la documentazione conservata. Inoltre, non tutti i fascicoli raccolti in sede periferica confluivano a livello centrale, pertanto il materiale conservato a Bergamo costituisce un significativo ampliamento conoscitivo sui sovversivi bergamaschi rispetto ai fascicoli presenti al CPC.

Il fondo archivistico dell’Archivio di Stato di Bergamo

Il numero dei fascicoli presenti nelle buste che compongono materialmente il fondo archivistico è maggiore o minore a seconda della quantità di documentazione raccolta. Nel caso di Ada Rossi, per esempio, compagna e poi moglie di Ernesto Rossi, sono presenti addirittura due fascicoli, che occupano quasi tutto lo spazio fisico della busta che li contiene. Ciò dipende dal fatto che la vita quotidiana della Rossi, dal momento dell’arresto di E. Rossi, avvenuto a Bergamo il 30 ottobre 1930 da parte dell’OVRA, la polizia segreta fascista, è stata sottoposta ad un accanito e quotidiano controllo fino al 1943. In tal modo i resoconti informativi si sono via via accumulati nel relativo fascicolo fino a raddoppiarlo, anche per effetto del sistematico controllo delle lettere di E. Rossi, che dal carcere corrispondeva molto frequentemente con la madre Elide e, appunto, con la moglie Ada. Il motivo di questa minuziosa attenzione sta nel fatto che la polizia fascista, pedinando, intercettando e spiando la Rossi e tutti gli interlocutori con cui era in contatto, contava di individuare altre persone coinvolte nell’organizzazione antifascista di ‘Giustizia e Libertà’, per stroncare la quale Rossi era stato arrestato insieme ad altri. Considerazioni analoghe valgono anche per il fascicolo dedicato allo stesso Rossi, che è a sua volta voluminoso ma meno di quello della moglie perché, dopo l’arresto, Rossi ha trascorso 9 anni in carcere e 4 al confino.

Formazione e caratteristiche dei fascicoli

La provenienza dei documenti conservati è assai diversificata. Vi sono per esempio i rapporti provenienti dagli organi centrali dello Stato, soprattutto dal Ministero degli Interni, in particolare dal CPC e dalla Polizia Politica (PP), oppure dal Ministero degli Affari Esteri, con tutto il suo apparato di Ambasciate e Consolati, a loro volta supportati dall’insieme delle rappresentanze diplomatiche minori degli agenti consolari e dalla fitta rete di spie fasciste infiltrate localmente tra gli antifascisti all’estero, dalle quali provenivano per lo più le informazioni ‘confidenziali’ trasmesse al Ministero dell’Interno dalle strutture diplomatiche.

I documenti quantitativamente prevalenti, però, sono quelli prodotti dalle articolazioni territoriali del Ministero degli Interni, le Prefetture, dalle quali dipendevano gli uffici locali delle Guardie di Pubblica Sicurezza, poi Questure, supportate dalle singole stazioni locali dei R. Carabinieri e dai rispettivi comandi territoriali. In queste sedi venivano redatti i verbali di perquisizioni, arresti e interrogatori, a volte integrati dai certificati sanitari rilasciati dal medico delle carceri di Sant’Agata, in Città Alta, dove gli arrestati venivano trasportati e rinchiusi dopo l’arresto e dove a volte rimanevano arbitrariamente a lungo, in attesa dell’eventuale processo e del suo esito. Nel caso di una condanna al confino politico, il medico delle carceri doveva certificare che il condannato fosse fisicamente in grado di sopportare il regime confinario.

I processi venivano celebrati da uno specifico organismo, la Commissione Provinciale per il confino di polizia. Istituita il 6 novembre 1926, la Commissione Provinciale non era una creazione fascista, perché riprendeva il suo impianto dalla legislazione precedente, che però veniva fascistizzata perché ridefinits nel più ampio contesto delle leggi ‘fascistissime’, che comprendevano anche il Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza. Sul piano formale, la Commissione era un’articolazione della magistratura ordinaria, ma i suoi componenti non dipendevano dal Ministero della Giustizia, bensì da quello dell’Interno e della Difesa, oltre che dal partito fascista. Era infatti composta dal prefetto (che la presiedeva), dal procuratore del re, dal questore, da un ufficiale dei carabinieri (Cc) e da un ufficiale della fascista Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (Mvsn). Poteva emettere, in ordine di gravità crescente, i provvedimenti della diffida, dell’ammonizione e del confino di polizia da 1 a 5 anni, prorogabili. La condanna al confino veniva emessa sulla base di un rapporto motivato del questore, come previsto dall’articolo 182 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza. Una volta emessa la condanna al confino, la Commissione Provinciale doveva inviare il dispositivo della sentenza al Ministero dell’Interno a Roma, che nel giro di pochi giorni comunicava alla Prefettura la località di destinazione del confinato, scelta tra le 262 di fatto utilizzate per tale scopo. È per questo che nei fascicoli dei confinati sono presenti anche le informazioni fornite dagli organi di sorveglianza e detenzione nelle località di confino politico, in genere situate nell’Italia meridionale interna (per i condannati per reati prevalentemente comuni ma ritenuti di rilevanza ‘sovversiva’) o nelle isole (per i politici propriamente detti), come Ponza, Lipari, Ventotene, Tremiti, Lampedusa, Ustica, Pantelleria, Favignana. In entrambi i casi, la destinazione era collocata in zone remote e socialmente arretrate, scelte con l’intento di sradicare i confinati dal proprio contesto famigliare, territoriale e civile, per fiaccarne le motivazioni e quindi la volontà di azione antifascista.

La legislazione repressiva fascista

La costruzione della legislazione speciale non nasce quindi con le leggi ‘fascistissime’ ma inizia da subito con il primo governo fascista, che nel 1923 riprende la normativa e la giurisdizione precedente e in breve la fagocita, inserendola in un processo che tende da un lato a introdurre misure per il controllo della magistratura ordinaria e dall’altro a ‘fascistizzare’ i giudici. Pertanto, le leggi speciali del biennio 1925-1926 non sono il punto di partenza della costruzione normativa dello Stato totalitario, quanto piuttosto un coerente benché provvisorio punto di arrivo, che anche dopo, infatti, avrà ulteriori assestamenti normativi. Il processo fin qui delineato trova infatti una sintesi con il regio decreto n. 773 del 18 giugno 1931, quando entra in vigore il Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, dove la categoria A8 viene denominata “Persone pericolose per la sicurezza dello Stato”.

Con la legislazione speciale inizia una fase nuova nel rapporto tra il fascismo, la magistratura e la società italiana tutta, che si innesca in seguito ad uno specifico episodio: il fallito attentato alla vita di Mussolini da parte del giovanissimo anarchico Anteo Zamboni, avvenuto a Bologna il 31 ottobre 1926. Subito fermato, il quindicenne Zamboni viene immediatamente linciato a morte sul posto da un gruppo di fascisti. In sede storiografica il giudizio storico-politico sull’attentato Zamboni non è affatto univoco, dato che esistono valutazioni diverse sull’origine dell’episodio (atto isolato o iniziativa fascista?), anche per la fretta con cui Zamboni viene ucciso. In questa sede va però evidenziato il fatto che, come conseguenza dell’attentato, nel giro di pochi giorni il fascismo inasprisce il suo contrasto all’opposizione politica e sociale introducendo ulteriori provvedimenti per colpire l’antifascismo. Di fatto, essere antifascisti diviene un reato. Oltre a quanto già ricordato sopra, per iniziativa del ministro della giustizia Alfredo Rocco, già il 25 novembre 1926 viene approvata la ‘Legge per la difesa dello Stato’ (n. 2008), che punisce con la pena di morte chi attenta alla vita del duce e del sovrano, vieta la ricostituzione di organismi politici, sindacali, editoriali e associativi già sciolti in precedenza e dispone la confisca dei beni e la perdita della cittadinanza italiana per chi all’estero si impegna nella propaganda antifascista. Sono le leggi ‘eccezionali’, per giudicare penalmente la violazione delle quali viene introdotto appunto il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, composto da giudici reclutati tra le fila dei militari o della milizia fascista, fedelissimi al regime. Alcuni degli articoli di tali leggi sono la ripresa di quelli già presenti nel codice zanardelliano del 1889 sotto la formula ‘Delitti contro la sicurezza dello Stato’, ma gli altri introducono nuovi reati, inesistenti nel codice precedente e che quindi prevedono nuove sanzioni penali.

A proposito del passaggio normativo dall’età liberale a quella fascista, è opportuno tenere conto di una distinzione. La legislazione fascista, infatti, se da un lato riprende da quella liberale la prassi di misure repressive nei confronti del dissenso politico, dall’altro lato con la legislazione speciale non si limita ad aumentarne la severità, ma ne modifica la natura giuridica. Il sistema penale liberale distingueva tra delitti politici e delitti comuni e nel tempo aveva anche dato luogo ad uno sviluppo normativo più favorevole ai ‘delitti’ politici. Come già era successo con la legge Pica, le stesse leggi anti-anarchiche promulgate nel 1894 da Crispi, che pure prevedevano corti marziali e norme ‘eccezionali’, scaturivano da una circostanza storica specifica, che aveva indotto il potere politico a introdurre nella prassi giuridica una normativa provvisoria, appunto un’eccezione, senza che ciò alterasse l’impianto teorico liberale di fondo su cui quella prassi si fondava, che almeno in linea generale presupponeva la garanzia della tutela dei diritti. Il fascismo, invece, fonda i propri provvedimenti su basi giuridiche diverse: non ammette alcuna ‘nobiltà’ alle motivazioni del ‘reato’ politico che, anzi, diventa oggetto di una specifica e più dura repressione, perché il principio giuridico ritenuto essenziale è il primato assoluto della tutela dello Stato nazionale su quella dei diritti individuali. Pertanto, tutto ciò che proviene da azioni individuali o ascrivibili ad associazioni o ad organizzazioni e che viene valutato come un pericolo per la sicurezza dello Stato, viene duramente colpito proprio per la natura politica delle azioni stesse, con ciò determinando una discontinuità con il diritto penale liberale. Esempio di ciò è proprio il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, che giudicava e condannava specificamente gli antifascisti, dato che la libertà di associarsi e organizzarsi politicamente, che in precedenza era un diritto, ora diventava un reato: dalla libertà di associazione alla negazione di tale libertà. Non è certo un caso che la nuova legislazione fascista reintroducesse la pena di morte, abolita nel 1889 dalla riforma Zanardelli del Codice Penale. Ora, invece, diveniva una tra le pene possibili per ‘reati’ politici, erogata appunto dal Tribunale Speciale. Pertanto, le norme del 1926 che trasformavano il domicilio coatto nel confino di polizia, destinato a tutti coloro che avevano anche solo manifestato il proposito di ‘sovvertire’ i poteri dello Stato o di contrastarne l’azione, configurano la Commissione Provinciale come il corrispettivo a livello locale di quello che il Tribunale Speciale rappresenta a livello centrale. Del resto, qualora in sede locale si fosse verificato un caso ‘politico’ di rilievo, non sarebbe stata la Commissione Provinciale locale ad occuparsene, bensì direttamente il Tribunale Speciale, al quale afferivano, come nel caso di E. Rossi, gli arresti effettuati dall’Ovra, la polizia segreta fascista istituita nel 1927 dal capo della polizia Arturo Bocchini nell’ottica di una razionalizzazione e modernizzazione dell’attività poliziesca. Lo scopo principale della sua istituzione, superando l’approccio meramente repressivo di Prefetture e Questure, era quello di rendere più mirato ed efficace il contrasto all’antifascismo attraverso il lavoro di prevenzione delle eventuali iniziative antifasciste, avvalendosi a questo scopo di un intenso lavoro informativo basato sull’estensione della rete spionistica, in Italia e all’estero. La segretezza dell’azione dell’Ovra circa le proprie indagini determinava poi il fatto che anche le Prefetture e le Questure delle aree dove si svolgevano le indagini erano tenute all’oscuro di tale lavoro, o venivano informate solo per averne un aiuto logistico e materiale nelle azioni di appostamento, perquisizione e arresto.

I materiali contenuti nei fascicoli

Accanto a quella determinata dalle strutture istituzionali, la produzione di documentazione veniva alimentata anche dalle amministrazioni locali, che su richiesta di Questure, Prefetture e R. Carabinieri fornivano informazioni anagrafiche sui soggetti considerati ‘sovversivi’ (date di nascita, matrimonio, morte, composizione della famiglia di origine o propria, fotografie, informazioni varie). Si aggiungono poi anche i documenti prodotti dalle sezioni locali e dalle federazioni provinciali del Partito Nazionale Fascista (PNF), che a volte chiedevano e a volte fornivano informazioni sui ‘sovversivi’, prevalentemente per denunciarli come tali agli organi territoriali dello Stato e per chiedere misure di polizia nei loro confronti. In taluni limitati casi succedeva però anche il contrario, dato che i molteplici vincoli derivanti dall’appartenenza alla rete locale dei rapporti sociali, a volte induceva il podestà fascista di un determinato Comune a cercare di attenuare la gravità della posizione del concittadino che rischiava di essere sottoposto a misure di polizia.

Nei singoli fascicoli sono conservate anche altre tipologie di documenti, tra le quali:

  • corrispondenza intercettata dalla polizia postale e a volte sequestrata o trascritta o fotografata
  • fotografie degli intestatari del fascicolo, realizzate dagli organi di polizia in seguito al fermo o all’arresto, oppure prelevate dalla corrispondenza con i famigliari nel caso di residenti all’estero che inviavano ai parenti rimasti in Italia immagini fotografiche proprie e della propria famiglia, oppure ancora tratte da documenti d’identità o richieste e fornite dalle stesse famiglie d’origine
  • scambi epistolari con la curia vescovile nel caso di sacerdoti ostili o comunque non allineati alle direttive fasciste
  • copie di atti giudiziari
  • memorie difensive degli avvocati delle persone arrestate
  • lettere di supplica dei famigliari indirizzate al prefetto, al questore o allo stesso Mussolini
  • tessere sindacali e di partito sequestrate al momento delle perquisizioni o degli arresti
  • ritagli o copie di giornali e fascicoli a stampa
  • elenchi di militanti politici forniti dai diversi Ministeri, come nel caso dei volontari della guerra di Spagna, degli appartenenti al Partito comunista clandestino o dei condannati dal Tribunale Speciale

Non mancano fascicoli di persone la cui famiglia d’origine non apparteneva alla provincia di Bergamo ma che vi erano nate per caso. Per questa sporadica casistica anagrafica, i documenti raccolti in un’altra provincia sul sovversivo in questione venivano trasmessi anche a Bergamo, così come, reciprocamente, la documentazione raccolta su persone nate altrove ma residenti nella provincia di Bergamo, veniva mandata da Bergamo alla Prefettura della provincia d’origine. Lo stesso processo di reciproca informazione accadeva anche per Questure e Prefetture di altre province in cui il sovversivo sotto sorveglianza si fosse provvisoriamente trasferito: in tal caso, la documentazione veniva inviata a partire dal momento dell’inizio di residenza in un determinato territorio fino al momento in cui si verificava un nuovo cambio di residenza. Questa stessa logica operativa viene seguita quando, nel caso dei militari di leva inclusi nell’elenco dei sovversivi delle loro province di provenienza e destinati a svolgere il loro servizio militare a Bergamo, le Questure della città di partenza ne informavano quella di Bergamo, che prendeva in carico la sorveglianza del soggetto segnalato, per poi reciprocamente effettuare la stessa segnalazione al termine della ferma militare.

La quantità e la tipologia dei documenti contenuti nei fascicoli, come già ricordato nel caso di Ada ed Ernesto Rossi, varia notevolmente in base al ruolo svolto dai singoli individui, dalla loro attività e dalla loro presunta ‘pericolosità’ sociale e politica: alcuni fascicoli sono infatti composti da un ridotto numero di documenti, mentre altri conservano voluminosi incartamenti che coprono un lungo arco di tempo. È per questo che la documentazione è distribuita nei singoli fascicoli in modo assai diversificato: in alcuni è conservato un solo documento, mentre in altri la copiosa documentazione consente una significativa ricostruzione delle vicende biografiche di coloro che venivano sottoposti a lungo al controllo degli apparati repressivi dello Stato, prevalentemente per ragioni politiche ma non solo per queste, dato che il termine ‘sovversivo’ racchiude significati che vanno oltre l’aspetto, prevalente ma non esclusivo, dell’appartenenza politica individuale alle diverse forze dell’opposizione.

Infatti, nell’arco di tempo che va dall’inizio del Novecento alla fine dell’esperienza fascista, si determina una progressiva trasformazione verso una configurazione verticista e autoritaria dello Stato, accelerata dalla cruciale esperienza della prima guerra mondiale e dall’esperienza della violenza che la caratterizza, insieme all’accresciuto controllo esercitato dell’apparato politico-militare sull’economia e la società. Nelle vicende che emergono dalla documentazione si coglie con chiarezza il motivo di fondo che determina l’agire di tutta la struttura degli apparati dello Stato, centrali e periferici, prima da parte dello Stato liberale e poi, in modo rinnovato, potenziato e ramificato, da parte dello Stato fascista, che diventa il fine di sé stesso. Si tratta appunto del tema della ‘sicurezza’, cioè dell’azione di tutela da parte dello Stato nei confronti di sé medesimo con risorse organizzative crescenti nel tempo, rivolte contro tutto ciò che veniva percepito come una minaccia - reale, potenziale, immaginaria – proveniente da soggetti individuali e/o collettivi attivi nella Nazione. In prima istanza, tale minaccia veniva attribuita a tutti i soggetti che si ponevano obiettivi di un cambiamento politico e sociale ritenuto ‘pericoloso per la sicurezza dello Stato’, per esempio partecipando a vario titolo al movimento operaio o a quello cattolico, che in molti casi individuali si sovrapponevano.

La motivazione della sicurezza, in seconda istanza, portava il fascismo ad estendere il controllo sociale oltre la sfera politica e a farsi totalizzante, coinvolgendo anche l’ambito dei comportamenti individuali nella vita civile quotidiana, sui quali veniva esercitata sorveglianza e repressione. In alcuni profili biografici, infatti, nonostante la legislazione restrittiva, soprattutto dopo l’emanazione delle leggi speciali fasciste, è proprio a causa dell’impedimento normativo ad una libera espressione di sé che si può cogliere da un lato l’esistenza di qualche tentativo di opposizione politica consapevole e organizzata, benché clandestina, e dall’altro quella di diffuse micro-forme di conflitto sociale residuale, che però si manifestavano prevalentemente come disagio e, talora, devianza sociale. Infatti, per spegnere il conflitto sociale, che nella visione organicistica e integrata della totalità sociale propria del fascismo è la radice di ogni male, il regime agiva da un lato soffocando e reprimendo progressivamente ogni forma di opposizione politica, soprattutto attraverso l’azione combinata della violenza squadrista e della restrizione legislativa e giudiziaria, e dall’altro creando nuove strutture organizzative (sindacato fascista, dopolavoro, organizzazioni giovanili, ecc.) per incanalarne e riassorbirne il disagio sociale che ne derivava. Al di fuori di tutto questo apparato restavano le vite concrete delle persone con il loro vissuto quotidiano. Così, quando si manifestavano alcune forme di conflitto sul piano dei comportamenti individuali, queste venivano più facilmente intercettate e represse, anche grazie al consenso (sia attivo che gregario) fornito al regime fascista da una parte significativa della popolazione. Accadeva così che in alcuni casi, ben documentati nei fascicoli, canti come ‘Bandiera rossa’ e grida come ‘Abbasso Mussolini’ o ‘Viva Lenin’, molto spesso ma non sempre dovuti a ubriachezza, trovassero solerti e loquaci testimoni a favore dei fascisti e dei carabinieri locali, determinando con ciò pestaggi, denunce e processi ai danni dei soggetti coinvolti, con le conseguenti condanne e con l’apertura di un fascicolo in Questura e a volte, nei casi più significativi o ritenuti tali, anche presso il Cpc.

In sintesi, si può dire che lo Stato fascista tendeva a riarticolare intorno alle proprie strutture istituzionali, amministrative e civili l’intera società nazionale, utilizzando a questo scopo sia le istituzioni ereditate dallo Stato liberale, con le quali però inizialmente doveva venire a patti per poterne usare il personale, sia lo stesso Pnf, che con le sue strutture aveva il compito di connettere più strettamente il corpo sociale alle istituzioni statali fasciste. Il Pnf svolgeva quindi, per lo più, un ruolo vicario, ma proprio tale collocazione ‘intermedia’, soprattutto in specifiche situazioni locali, consentiva ad alcuni esponenti fascisti di ritagliarsi notevoli margini di autonomia d’azione, come ad esempio nel caso notevole del comune di Caravaggio e dintorni, un’area controllata e oppressa con violenza dallo squadrista, podestà e deputato Tobia Ceserani e dai suoi uomini. Il rapporto tra Stato e Nazione durante il fascismo si mostra dunque assai articolato e perciò meritevole di ulteriore e attenta indagine. A questo proposito le informazioni che provengono dai fascicoli dei sovversivi bergamaschi si rivelano utili proprio per la pluralità territoriale e sociale degli ambiti che vi sono rappresentati.

I sovversivi

Chi sono dunque i sovversivi? Per rispondere alla domanda, va specificato che, dal punto di vista della nomenclatura terminologica di cui si servivano le Prefetture e le Questure, formalmente vi sono almeno due livelli nell’appartenenza alla categoria dei sovversivi: essere compresi nell’elenco dei sovversivi con il proprio fascicolo, oppure essere compresi nello schedario dei sovversivi, che costituiva un più circoscritto sotto-insieme dei fascicoli. Nel linguaggio comune il termine ‘schedato’ viene erroneamente utilizzato per indicare tutti coloro per i quali sono stati aperti fascicoli individuali da parte della Questura. In realtà il termine deriva dal fatto che, per il sovversivo in questione, quando gli agenti della Questura, in particolare della ‘squadra politica’, ritenevano che il livello di pericolosità sociale e politica fosse alto, non si limitavano solo ad aprire il relativo fascicolo e ad inserirlo tra gli altri dell’elenco dei sovversivi, ma all’interno di esso aprivano anche la sua ‘scheda biografica’, cioè un modulo prestampato sul quale venivano annotate, inizialmente a mano e in seguito dattiloscritte, le informazioni raccolte sul soggetto in questione e utili a valutarne la ‘pericolosità’. Chi faceva parte degli ‘schedati’ rientrava anche nella categoria di coloro che dovevano essere fermati in determinate circostanze (per esempio, durante la presenza in città o nella provincia di figure importanti del regime e dello Stato, anche solo per il breve momento del transito, in quella determinata località, di un treno su cui viaggiava un notabile, dal Re ad alti gerarchi fascisti). Tutti i sovversivi erano quindi compresi nel relativo elenco, ma non tutti erano schedati, cioè non per tutti era stata aperta la ‘scheda biografica’. Quando il comportamento del sovversivo schedato non veniva più ritenuto ‘pericoloso’, poteva essere ‘radiato’ o ‘depennato’, cioè veniva chiusa la sua scheda. Tuttavia, dallo schedario si poteva essere ‘radiati’ (o ‘depennati’), senza per questo cessare di far parte dell’elenco dei sovversivi, pertanto si continuava ad essere ‘vigilati’. Solo in seguito ad ulteriori accertamenti avveniva la radiazione anche dall’elenco dei sovversivi e, finalmente, il relativo fascicolo veniva passato in archivio. Dopo la chiusura di un fascicolo, poteva però anche succedere che questo venisse tolto dall’archivio e riaperto per l’insorgere di nuovi elementi di ‘pericolosità’ nel comportamento del sovversivo in questione.

La risposta più generale e comprensiva alla domanda su chi è un sovversivo è dunque questa: essere un elemento ritenuto pericoloso per l’ordine e la sicurezza nazionale.

La ‘pericolosità’ comprendeva molte categorie:

  • essere antifascisti, in Italia e all’estero
  • essere in relazione con antifascisti (‘rinnegati’), sia in Italia che all’estero
  • far parte di associazioni e organismi politici e culturali non fascisti o antifascisti
  • avere espresso pubblicamente, per strada o in esercizi pubblici, critiche alla politica fascista
  • dar luogo a canti e grida antifascisti e/o anti-mussoliniani, anche se dovuti a ubriachezza
  • aver pronunciato frasi ‘oltraggiose’ nei confronti di Mussolini, del fascismo, del Re, dei membri della famiglia reale, degli esponenti fascisti
  • essere trovati in possesso di stampati antifascisti (giornali, riviste, opuscoli, libri, volantini, manifesti, ecc.) e sorpresi a distribuirli
  • avere partecipato alla guerra di Spagna come volontari antifranchisti
  • far parte del Partito comunista clandestino e di ‘Giustizia e Libertà’
  • far parte dei sacerdoti che, nonostante i Patti Lateranensi, non accettavano il condizionamento fascista sul clero cattolico in occasione di celebrazioni fasciste o nella gestione del tempo libero delle giovani generazioni
  • avere rapporti con strutture politiche, militari e organizzative straniere non derivanti da incarichi fascisti ed essere pertanto ritenuti individui ‘loschi’
  • avere danneggiato beni pubblici dal forte valore simbolico (come i parchi delle Rimembranze della prima guerra mondiale)
  • essere fascisti ‘dissidenti’
  • aderire al combattentismo autonomo da quello ufficiale, finito sotto il controllo fascista
  • essere assegnati come militari di leva a Bergamo nel 78° Reggimento Fanteria preceduti da una segnalazione di ‘sovversività’ inviata dalla provincia di provenienza del soldato in questione, che a Bergamo veniva sorvegliato al momento della libera uscita dalla caserma

È così che dirigenti politici e sindacali, semplici militanti, simpatizzanti, operai, contadini, disoccupati, uomini e donne comuni appartenenti a tutti i gruppi sociali ma in netta prevalenza ai ceti subalterni, caratterizzati dalle più diverse appartenenze (anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani, democratici, liberali, cattolici popolari e non, sacerdoti, arditi del popolo, reduci dalla prima guerra mondiale ma non fascisti, fascisti dissidenti, sospetti antifascisti, emigrati e ‘fuorusciti’, volontari della guerra di Spagna, primi esponenti della Resistenza, ecc.), erano controllati dagli apparati polizieschi, che raccoglievano informazioni personali e politiche in modo capillare. Il fascismo si avvaleva, oltre che delle forze di polizia e dei militi fascisti, anche di molti delatori, attivi nei luoghi di lavoro, nel dopolavoro, nel tempo libero, nei locali pubblici, nei caseggiati, per strada, nelle chiese durante le funzioni religiose per ascoltare le omelie dei sacerdoti.

I sovversivi e la ricerca storica

L’insieme della documentazione conservata consente di esplorare il rapporto che intercorre tra le dinamiche sociali, politiche e ideologiche attive nella società civile italiana e che possono generare conflitto sociale e politico, e le relative strategie per la loro individuazione e neutralizzazione da parte dello Stato, a scopo appunto di controllo politico e conservazione sociale. Il contributo che l’analisi di questa documentazione può portare alla conoscenza dei movimenti politici e sociali tra fine Ottocento e metà Novecento è di grande importanza. A titolo di esempio:

  1. indagare natura, sviluppi e protagonisti dei movimenti d’opposizione nel territorio bergamasco tra la fine del periodo crispino e il sorgere del primo conflitto mondiale;
  2. ricostruire le esperienze dei ‘sovversivi’ che hanno partecipato alla prima guerra mondiale e la ricaduta che tale esperienza ha avuto sui comportamenti successivi;
  3. individuare tempi, forme e soggetti del periodo di trasformazione sociale e politica all’indomani della prima guerra mondiale (biennio rosso e biennio nero), sfociato nell’instaurazione del fascismo;
  4. ricostruire su scala locale l’evoluzione del controllo poliziesco sulle forme di protesta sociale e di dissenso politico, in particolare l’incremento qualitativo e quantitativo dei mezzi dispiegati durante il regime fascista per l’esercizio del controllo politico e sociale;
  5. ricostruire le forme e i contenuti dell’opposizione al regime fascista, sia organizzate e militanti, sia spontanee e improvvisate, per una rivisitazione complessiva dell’antifascismo bergamasco, indagato nella sua genesi e nell’intreccio tra le sue diverse componenti;
  6. individuare approfondimenti tematici (biografie significative sul piano sociale, culturale e antropologico, come nel caso della presenza di figure femminili e della loro fisionomia nel contesto degli studi di genere; studi comparati di gruppi politici, ideologici, professionali, ecc.; ricerche mirate su specifici periodi storici o eventi particolari: per esempio, la presenza nel territorio bergamasco degli Arditi del Popolo; la presenza in città e provincia di sacerdoti sloveni come confinati interni dopo l’8 settembre 1943; i volontari antifranchisti nella guerra di Spagna, ecc.).

Le carte di polizia contengono non solo moltissime informazioni sulla vita di migliaia di individui e sui loro contesti sociali, familiari, culturali e politici, ma offrono, come poche altre fonti documentarie dell’epoca, la possibilità di rivolgere uno sguardo privilegiato all’interno della società bergamasca della prima metà del Novecento, nonché ai grandi fenomeni storici che in vari modi l’hanno coinvolta. In questa tipologia documentaria, infatti, si intrecciano almeno tre diversi piani storici:

  1. le vicende individuali e le relazioni sociali che attorno ad esse si sviluppavano
  2. la storia locale, con le dinamiche entro cui si formavano e agivano le storie individuali
  3. la ‘grande storia’, con i suoi processi (due conflitti mondiali; l’emigrazione; l’evoluzione del mondo agrario e industriale e i conflitti socio-politici che vi sono connessi; il passaggio dallo Stato liberale a quello fascista, ecc.) e che, con modalità diverse, si sono intrecciati con i due piani precedenti.

Ricerca storica e cautela metodologica

Finora la valorizzazione storiografica di questa fonte è stata occasionale e strumentale, rivolta cioè alla ricerca di informazioni biografiche su singoli ‘sovversivi’, però cercate e raccolte nel contesto di un discorso finalizzato a studiare altro. Il fondo di Questura non è dunque ancora stato oggetto di uno studio specifico, pertanto manca un lavoro d’insieme su di esso. Il data-base dei ‘sovversivi’ potrà in primo luogo favorire uno studio specifico sul fondo archivistico in quanto tale. In secondo luogo, grazie ad esso sarà possibile condurre ulteriori e più articolate ricerche sull’antifascismo bergamasco.

In entrambi i casi, tuttavia, non si tratta di un lavoro semplice. I documenti d’archivio, come le altre tipologie di fonti in genere, sono necessari ma non sono sufficienti a dare un orizzonte di senso alla ricerca storica. Il fatto è che i documenti, in quanto tali, non mentono mai ma ingannano spesso. Non mentono mai, perché nella loro consistenza materiale che fa da supporto a molteplici forme di scrittura, non possono che dire quel dicono: vero o falso che sia il loro contenuto, è vero che lo dicono. Ingannano spesso, perché anche la più esaustiva raccolta di documenti richiede un lavoro interpretativo, che deve in primo luogo tener conto del contesto che li produce e li contiene. Va infatti sottolineato che, nel caso dell’utilizzo del data-base a scopo storiografico, è necessario tenere ben conto della specificità di questa fonte e, in particolare, della prospettiva interpretativa con cui gli organi di polizia vigilavano e controllavano i fenomeni sociali e politici. Va cioè compreso lo ‘sguardo’ di coloro che, con la loro attività di produzione e di raccolta di informazioni sui ‘sovversivi’, hanno di fatto costituito i singoli fascicoli: dirigenti e funzionari centrali e periferici dell’apparato statale fascista, agenti di Ps e carabinieri, strutture organizzative del Pnf supportate da un’ampia area sociale legata al regime e fatta di sostenitori consensuali, opportunisti, delatori. Il loro ‘sguardo’, tradotto nel linguaggio che caratterizza la maggior parte dei documenti conservati nei singoli fascicoli, si esprime con un lessico specifico, che si manifesta attraverso un universo terminologico dove si incontrano, tra gli altri, i motivi tipici dell’ideologia fascista, come ad esempio l’esclusiva appropriazione nazionalistica e fascista del concetto di ‘patria’, da cui segue che chi è patriottico non può che essere fascista, mentre chi è antifascista è antipatriottico, cioè ‘nemico’ dell’Italia. Questo codice linguistico si intreccia inoltre con formule derivanti da sotto-codici burocratici e da stereotipi propri del senso comune, i quali, a loro volta, vengono alimentati dalla pervasiva propaganda fascista. In moltissimi casi, nei rapporti che gli agenti di pubblica sicurezza e i carabinieri redigono per i rispettivi comandi, la descrizione dei ‘sovversivi’ esprime una profonda diffidenza, che deriva non solo da una convinzione ideologico-politica conservatrice, ma anche da un pregiudizio antropologico. Infatti, nelle formule linguistiche con le quali gli agenti di polizia e i carabinieri descrivono i ‘sovversivi’ sul piano umano, compaiono spesso giudizi che intendono presentare come ‘vera’ l’immagine sociale del soggetto in questione, del quale si dice per esempio che ‘gode di cattiva fama’, quasi sempre senza portare alcuna argomentazione in proposito. Allo stesso modo, di fronte alle frequenti domande di grazia o di riduzione della pena, inoltrate dagli avvocati difensori o dai famigliari dei condannati alle autorità centrali fasciste, queste ultime, prima di prendere una decisione in proposito si rivolgono alle autorità locali, chiedendo quale effetto avrebbe ‘sull’elemento locale fascista’ un eventuale provvedimento di clemenza o di grazia. Si coglie qui un cortocircuito ideologico-politico: il regime fascista da un lato tende ad avvolgere e a comprimere l’intero corpo sociale dentro le sue stesse maglie, utilizzando sia l’apparato statale che il partito fascista come esecutore di tale volontà politica, ma dall’altro sta molto attento a non entrare in contraddizione con gli umori ideologici della base fascista, della quale però conosce solo ciò che gli apparati locali comunicano.

Ci sono però anche altri aspetti da considerare. Accade infatti che, in particolare nelle relazioni scritte dai funzionari di Questura e Prefettura o dagli ufficiali di polizia e carabinieri e indirizzate al prefetto a proposito delle ragioni degli arresti e delle relative denunce di antifascisti, emerga quasi sempre una valutazione della vicenda in questione basata solo sul rispetto formale del codice penale fascista. Questo aspetto si accentua quando, in base alle relazioni ricevute, il prefetto deve a sua volta renderne conto al Ministero degli Interni, al quale vengono spedite relazioni più sintetiche e molto attente a far emergere l’allineamento alla normativa e all’ideologia fascista delle misure repressive attuate.

A fronte di tutto ciò, nella documentazione conservata sono presenti anche materiali che rappresentano un’asimmetria linguistica rispetto alle parole del potere fascista, delle sue strutture e dei suoi uomini. Infatti, per esempio, si rivelano molto interessanti i testi di alcune lettere intercettate dalla polizia postale fascista e provenienti dall’estero, indirizzati a famigliari di emigrati antifascisti. Tali lettere, che non sono state rimesse in corso e quindi non sono state ricevute dai destinatari, oltre a contenere notizie personali, a volte contengono anche valutazioni di tipo politico e sociale non filtrate dall’autocensura e dalle quali emerge il vissuto profondo di molte famiglie bergamasche in rapporto al fascismo e all’esperienza dell’emigrazione. Queste scritture sono evidentemente limitate di numero, ma costituiscono delle spie linguistiche assai interessanti, che meriterebbero un approfondimento specifico.